lunedì 29 gennaio 2018

Recensione #6: L'insostenibile leggerezza dell'essere di Milan Kundera

La recensione di quest’oggi è in realtà pronta da diversi mesi, è stata una delle prime ad essere stata scritta. Per varie ragioni, la sua pubblicazione è stata rimandata, ma ve la propongo adesso. È doverosa una mia introduzione prima di lasciarvi alla lettura: devo semplicemente avvertirvi che le mie parole sono davvero poca cosa di fronte alla complessità e profondità di questo splendido libro. Vi invito, dunque, ad approfondire in autonomia i numerosi aspetti e le varie tematiche che troverete nel corso della lettura del romanzo stesso. Vi lascio alla lettura del mio parere, sperando di suscitare un po’ di interesse verso questo romanzo.


Trama
Siamo negli anni attorno al 1968. La Cecoslovacchia (oggi non più esistente, scissa in Repubblica Ceca e Slovacchia) vive gli anni dell’invasione da parte dell’Unione Sovietica e il periodo della Primavera di Praga. Milan Kundera (Repubblica Ceca, 1929) ci presenta ne L’insostenibile leggerezza dell’essere (1982) le difficili condizioni di vita degli intellettuali cechi di quel periodo e lo fa raccontandoci delle (dis)avventure e disgrazie di quattro personaggi: Tomáš, un chirurgo perseguitato a causa di un articolo su Edipo contro il comunismo russo; Tereza, fotografa e moglie di Tomáš che riuscirà a rinunciare alla sua professione ma non alla gelosia per il marito; Franz, professore universitario insoddisfatto della moglie e della figlia e che insegue i suoi ideali sulla scia del ricordo della donna che realmente ama; Sabina, pittrice e amante di Tomáš ma innamorata in realtà di Franz, anche se non riuscirà ad instaurare con lui una relazione seria.

Recensione
Una delle teorie che ho più amato di questo libro è l’idea che, come dice lo stesso Kundera in una splendida divagazione d’idee verso la fine del romanzo, gli individui possano essere suddivisi in quattro categorie in base al tipo di sguardo sotto il quale si desidera vivere: coloro che vogliono su di loro numerosi sguardi anonimi (un cantante o un’attrice); coloro che vogliono gli sguardi di molti conoscenti (la moglie e la figlia di Franz, che vivono al centro dell’attenzione in feste e ricevimenti); coloro che vogliono solo lo sguardo della persona amata (Tomáš e Tereza, che, nonostante tutto, vivono l’uno per l’altra); coloro che vivono sotto lo sguardo di persone assenti (Franz, che è un sognatore e vive sotto lo sguardo, immaginato ma assente, di Sabina).

L’idea che sta alla base del romanzo è che la vita sia unica, infatti viene spesso ripetuto “Einmal ist Keinmal”, proverbio tedesco che significa che ciò che avviene una sola volta è come se non fosse mai accaduto. Quindi le scelte compiute da ciascun individuo appaiono a Kundera del tutto irrilevanti, da qui la loro leggerezza. Nasce dunque un paradosso tra questa leggerezza della vita e la necessità umana di ritrovarvi necessariamente un senso. Questo paradosso si intreccia con le vicende dei quattro personaggi, intercalate anche da profondi pensieri filosofici e dalle idee dell’autore, che si impongono con forte impatto al lettore.

Ho letto diverse critiche a questo testo, molte delle quali si possono riassumere sostenendo che si tratta in realtà di un saggio mascherato da romanzo: consideriamolo, dunque, un romanzo-saggio, forma tanto cara al suo autore. Non è certo un romanzo da lettura leggera, ma io ho molto apprezzato le divagazioni filosofiche di Kundera e condivido molte delle idee che qui espone. Non l’ho trovato per nulla pesante, credo che Kundera sia stato abilissimo a non far pesare tutte le implicazioni storiche e filosofiche e sia stato capace a far incollare il lettore alle pagine del suo libro. È pur vero che sconsiglierei la lettura di questo libro a chi non abbia un minimo di dimestichezza con la filosofia e i suoi concetti, proprio per i vari autori citati e le loro dottrine (Parmenide, Nietzsche e Cartesio, tra gli altri).

Particolare anche il periodo storico in cui è ambientato il romanzo. Siamo negli anni attorno alla cosiddetta “Primavera di Praga”, quel periodo di liberalizzazione politica mentre la Cecoslovacchia era sottoposta al dominio dell’Unione Sovietica, dopo la seconda guerra mondiale. Viene messa in risalto, in particolare, la condizione degli artisti in quel periodo, soprattutto di coloro che si schieravano proprio a favore della liberalizzazione: nella realtà, lo stesso Kundera ne subirà le conseguenze che lo porteranno a fuggire in Francia; nel romanzo è invece Tomáš a schierarsi contro il comunismo e a perdere perfino il lavoro.

Non mi soffermo ad analizzare la parte saggistica sull'etimologia della parola “compassione” o lo strumento della “immaginazione affettiva” sfruttato dall'autore nel testo, non sono un docente o un’esperta in materia e potrete recuperare queste informazioni facilmente sul web. Vi ho riportato soltanto il mio modesto parere e concludo dicendovi che ho, infine, adorato le idee e i pensieri filosofici di Nietzsche e Descartes che si trovano soprattutto verso la fine del libro riguardanti gli animali, intervalli che si inseriscono nella storia di Karenin (per la quale, devo ammetterlo, ho provato subito un profondo affetto, pari a quello provato da Tereza nei suoi confronti): per lei, d'altronde, ho versato anche qualche lacrima. Curiosi di sapere chi sia Karenin? E curiosi di sapere perché ho pianto per lei? Be’, non vi resta che leggere questo capolavoro di Milan Kundera.

domenica 21 gennaio 2018

Recensione #5: La libertà del pettirosso di Francesco Di Giulio


“Tutti noi nasciamo liberi, e se qualcuno non lo è certamente il suo istinto in qualche modo lo condurrà ad esserlo. Guardate ad esempio come vivono i pettirossi. Loro sono nei loro nidi al sicuro, perché si sono creati il loro giaciglio con cura e determinazione. Eppure al primo forte rumore essi istintivamente non si sentono più al sicuro e fuggono via. E sapete cosa succede? Che ritorneranno non appena tutto si sarà nuovamente calmato. Il pettirosso che vive senza troppi ragionamenti e sa qual è il miglior modo per proteggersi, possiede la capacità del vivere qui ed ora. Una capacità che è radicata in ogni animale. Se anche noi uomini potessimo rammentare, grazie all'esempio degli animali, la nostra innata capacità di sentirci in pace con noi stessi nel qui ed ora, anche noi saremmo senza dubbio più felici.”


La libertà del pettirosso è il romanzo d’esordio di Francesco Di Giulio.
Si tratta di un thriller medievale ambientato in un monastero. Alcuni degli uomini di chiesa che qui dimorano decidono di morire in modi atroci, incitati dalle parole che trovano in alcune pergamene che sembrano portate direttamente dal demonio. Uomini puri all'apparenza, ma con l’animo corrotto. Quell'oscurità che è stata tenuta nascosta rischia di venire rivelata. Un bambino recluso e la sua storia si intreccerà con quella dei monaci dell’abbazia: riuscirà quest’anima a redimerli dai loro peccati?

Un’abbazia, il Medioevo, monaci che muoiono in modo sospetto, uno dei frati che proverà ad indagare. Inutile dire che tutti questi aspetti mi intrigavano parecchio, rammentandomi molto il romanzo di Eco che adoro.
Ho letto questo libro in due giorni, soprattutto perché, per impegni personali, non ho avuto molto tempo a disposizione da dedicare alla lettura. In realtà, basterebbe avere un pomeriggio libero per leggere tutto d’un fiato questo thriller, non soltanto perché la vicenda viene narrata in poche pagine, ma anche e soprattutto perché è davvero appassionante. La storia e il modo in cui viene narrata meriterebbero quasi il massimo dei voti. Il racconto è coinvolgente e non si può fare a meno di restare incollati alle pagine per vedere quale dei monaci troverà quelle strane pergamene, oltre che per scoprire da dove provengono e come si potrà porre fine a tutto ciò che accade. Ho enormemente apprezzato anche il titolo del romanzo, altro elemento che mi spingeva a proseguire la lettura per scoprirne il significato.
Nonostante questi aspetti positivi, però, ho anche riscontrato degli elementi che mi hanno portato a dare un voto un po’ più basso al romanzo. Uno di questi elementi ha a che fare proprio con la sua lunghezza, o brevità in questo caso. Il mio gusto personale mi porta a prediligere libri con un numero un po’ più consistente di pagine per il semplice motivo che, di solito, riescono a descrivere meglio fatti, persone o situazioni. Le poche pagine di questo romanzo, infatti, non rendono giustizia al potenziale insito nel libro stesso: ha tutte le carte in regola per essere considerato uno dei migliori libri sul mercato di questo genere, ma spesso non si riescono a capire bene le sensazioni e le emozioni dei frati o non si scava bene a fondo nella loro anima o nel loro passato per raccontare quale oscuro peccato nascondano. Avrei gradito qualche pagina in più proprio per leggere più dettagli degli eventi narrati, per conoscere meglio i monaci, per sentire in maniera più profonda quali fossero i loro stati d’animo. Un ultimo elemento negativo riguarda la punteggiatura. Non ho riscontrato errori grammaticali, soltanto qualche refuso o svista che non compromette affatto il mio giudizio (per esempio, fratello Bernardo da Trasimeno e fratello Marzio da Buscia sono due dei personaggi di questa storia, ma ad un certo punto della narrazione si ritrova scritto “frate Bernardo da Buscia”: piccola imprecisione che può essere perdonata). Ho trovato, invece, difficoltà nel passare oltre alle virgole mancanti o poste in maniera poco consona nelle proposizioni e, soprattutto, alle frasi terminanti con più di un punto esclamativo.

Questi elementi mi hanno portato a scegliere 3.5 come voto finale. Sono dell’idea che Francesco Di Giulio abbia davvero una buona capacità di scrittura, oltre a delle idee molto originali: sono certa che la sua scrittura non potrà far altro che affinarsi nei suoi prossimi scritti.
Lo ringrazio ancora per avermi dato l’opportunità di leggere il suo libro.

mercoledì 17 gennaio 2018

Recensione #4: Il terremoto inventato di Nino Inzerillo


“Ecco, se mi avessero chiesto: qual è la trama del tuo romanzo? Avrei risposto: nessuna storia comune, è solo e soltanto una lunghissima lettera d’amore per le donne, per i sigari cubani e per la vita stessa.”


Trama
Il terremoto inventato è un romanzo che vede protagonista Nino, un distinto professore universitario che, vinto dalla solitudine e dalla noia, decide di farsi istituzionalizzare in un centro d’igiene mentale. La vita e i ritmi dell’ospedale, però, gli diverranno presto stretti e la voglia di vivere tornerà a scuoterlo, proprio come viene scossa la sua città, Palermo, da un terremoto. Coglie, dunque, l’opportunità e fugge dalla struttura, riscoprendo anche le strade e le piazze cittadine, alle quali non era più abituato. Trascorre la notte intera insieme ad altre persone – conoscenti e sconosciuti, reali o nella sua immaginazione – anche loro per le strade a causa della paura delle scosse. Passeremo le ore in sua compagnia, rivivendo anche episodi del suo passato che ci permetteranno di conoscere la sua vita ed i suoi pensieri.

Recensione
Il terremoto inventato è il romanzo d’esordio di Nino Inzerillo, in cui tutto è reale, irreale e surreale al tempo stesso. È sicuramente un romanzo che il lettore non si aspetta: il panorama letterario contemporaneo è piuttosto monotono e ripetitivo, soprattutto quello italiano, e non è affatto comune trovare romanzi come questo. Anche lo stile di scrittura, che ricorda il flusso di coscienza di Joyce, e il linguaggio utilizzato, pulito e ricercato, gli permettono di essere classificato ad un livello più alto rispetto a molti altri. Queste caratteristiche lo rendono sicuramente un romanzo non adatto a chiunque, ma consigliato a chi cerca qualcosa di diverso e non convenzionale.
Perfino la trama non è banale. Grazie alle sue riflessioni e ai suoi ricordi, comprendiamo i motivi che spingono Nino a chiedere di essere istituzionalizzato e lo affianchiamo anche nei momenti che lo scuotono e riportano in lui la voglia di vivere, sperare e amare. L’amore è infatti il filo conduttore del romanzo, ciò di cui Nino sente maggiormente la mancanza e ciò che vorrebbe provare e vivere, in maniera totale e completa.

“Avevo una voglia matta, quasi un’urgenza indifferibile di uscire innamorato e ricambiato da quella piazza come se fosse l’ultimo approdo; mi ripetevo che non volevo tornare a casa da solo, che sarei riuscito in qualche modo a realizzare il mio desiderio. Era la solitudine l’agente che erodeva il tempo e faceva sorgere in me quella necessità di affermare il mio diritto all'amore. Quel terremoto che ormai era stato declassato a mero evento assolutamente marginale non poteva né doveva essere inutile, avevo da tornare a vivere: quello era l’effetto che ebbe il sisma sul mio cuore.”

Accompagnare Nino durante le sue riflessioni è totalmente coinvolgente. Dopo un inizio un po’ lento, in cui dobbiamo prendere confidenza sia con il personaggio che con uno stile e un linguaggio non usuali, la lettura procede spedita e i pensieri di Nino diventeranno spunto di riflessione anche per il lettore. Al suo interno, si fa riferimento a due terremoti che realmente colpiscono la Sicilia: quello del Belice del ’68 e quello del 2002, che diventano anch'essi spunto di riflessione interiore e si legano al titolo del libro. Un altro aspetto piacevole si ritrova nel momento in cui vediamo il romanzo arricchirsi di riferimenti alla letteratura (italiana e straniera, classica e contemporanea): leggiamo, dunque, richiami tanto a Dostoevskij, Calvino o Flaubert quanto alla Rowling e al suo Harry Potter.

Ringrazio ancora una volta l’autore per avermi dato l’opportunità di leggere il suo libro e concludo consigliandovi la lettura di questo romanzo dal forte sapore autobiografico, ma che lascia spazio all'immaginazione del lettore per distinguere ciò che è reale da ciò che è inventato.

sabato 6 gennaio 2018

Libri e arte #1: Visitiamo insieme il Museo Guggenheim di Bilbao


Origin è il quinto capitolo della serie di Dan Brown con protagonista il professor Robert Langdon.
Come già sappiamo dai precedenti romanzi, Dan Brown è un grande esponente del genere action-thriller, in cui il protagonista deve risolvere una serie di misteri, raccogliere indizi e decifrare simboli per arrivare alla soluzione del caso. Nei romanzi di Dan Brown, tutto ciò si mescola spesso all’arte e alla letteratura: troviamo, infatti, riferimenti a Dante Alighieri in Inferno o a Leonardo nel suo più famoso bestseller Il codice Da Vinci

Anche in Origin non mancano questi riferimenti artistici e culturali, complice anche il fatto che il romanzo è ambientato in Spagna, culla di un immenso patrimonio di opere e monumenti.
Gli eventi fondamentali si svolgono inizialmente a Bilbao, sede del famosissimo museo Guggenheim, per poi spostarsi a Barcellona, tavolo da lavoro del noto architetto Antoni Gaudí. Inoltre, si fa riferimento ad alcuni luoghi nevralgici di Madrid, essendo coinvolta anche la famiglia reale spagnola, e di Budapest, sede di uno degli omicidi di questo romanzo.

Oggi andiamo proprio alla scoperta di alcune opere che incontriamo grazie alle avventure di Robert Langdon in questo libro, in particolare ci concentriamo sul Museo Guggenheim.

Il romanzo si apre con una sensazionale scoperta fatta dal futurologo Edmond Kirsch, allievo di Langdon molti anni prima. Kirsch scopre la risposta alle due domande che l’uomo si è sempre posto: “Da dove veniamo? Dove andiamo?” e la sua scoperta mina le basi di tutte le religioni del mondo. Per la sua presentazione pubblica, Kirsch sceglie come location l’avveniristico museo Guggenheim di Bilbao, dove invita i più illustri e influenti personaggi sociali, compreso il professor Langdon. Prima dell’annuncio, gli ospiti hanno l’opportunità di fare una visita guidata personalizzata tra le opere del museo e anche noi possiamo fare un piccolo tour virtuale seguendo Langdon e la sua guida Winston.


Il Guggenheim di Bilbao è un museo di arte contemporanea progettato dall’architetto Gehry ed inaugurato nel 1997.

All'ingresso del museo, la prima opera che Robert vede è Puppy, l’enorme cane fatto di acciaio, legno e terreno e ricoperto interamente di fiori. Realizzato dall'artista statunitense Jeff Koons, Puppy è un West Highland White Terrier alto circa tredici metri, è realizzato con 70.000 fiori e ha un sistema di irrigazione interno. Nasce nel 1992, prima dell’apertura del museo, ma, dopo l’inaugurazione, viene qui posto in maniera definitiva.
Ancora all'esterno, Langdon si trova ad osservare Maman, opera della scultrice franco-americana Louise Bourgeois. Si tratta di un ragno gigante realizzato nel 1999, alto quasi una decina di metri, e completo anche della sacca delle uova. Da una parte, l’opera è legata al ricordo della madre dell’artista (da qui il titolo Maman): la madre era, infatti, una tessitrice (proprio come i ragni) ed anche una figura positiva e difensiva, così come i ragni sono animali utili e protettivi contro le zanzare portatrici di malattie. Dall'altra parte, sul piano della simbologia rappresenta invece la superbia richiamando il mito di Aracne. Il mito racconta dell’abile tessitrice che ripeteva di essere migliore della dea Atena, protettrice delle arti: quest’ultima decise di sfidarla, ma Aracne le dava filo da torcere e perciò fu trasformata in ragno e costretta a tessere per tutta la vita a causa della sua spavalderia.

Sempre all'esterno, Robert si imbatte in un banco di nebbia, riuscendo a capire solo in un secondo momento che si tratta della strana installazione della giapponese Fujiko Nakaya dal titolo Fog che nasce grazie alla comparsa, in maniera artificiale, della nebbia su un ponte attraverso un sistema di tubature. È stata realizzata nel 1998, installata in modo permanente in una piscina esterna del museo ed il titolo – oltre che indicare la nebbia in lingua inglese – è anche un omaggio all'architetto che realizzò il Guggenheim di Bilbao, Frank O. Gehry.

Varcata la soglia del museo e guidato dalla voce di Winston nelle sue cuffiette, Langdon osserva alcune delle opere esposte all'interno.

Una delle più suggestive è Installation for Bilbao, della statunitense Jenny Holzer. L’artista, attraverso le sue opere realizzate grazie all'impiego della tecnologia, ha sempre avuto un forte impegno sociale e, nel caso di Bilbao, decide di sensibilizzare i visitatori sull'AIDS: nel 1997 realizza, dunque, nove strisce a led verticali sulle quali scorrono delle frasi come “I say your name” o “I save your clothes” in tre diverse lingue (basco, spagnolo e inglese).

Altre installazioni particolari che incontriamo seguendo Langdon sono quelle di Richard Serra, famoso scultore statunitense conosciuto soprattutto per le sue opere d’arte realizzate attraverso fogli di metallo. Le sue opere, infatti, incoraggiano il visitatore a girarvi intorno, entrarvi dentro o attraversarle. Snake, per esempio, realizzato per l’inaugurazione del museo, consiste in tre nastri d’acciaio: giocando con lo spazio negativo, i tre enormi nastri sinuosi creano l’illusione che si tratti di due serpenti in movimento. Torqued spiral fa parte delle opere più recenti dell’artista e fa
apparire il duro metallo come se fosse morbido e malleabile. Quest’opera (o serie di opere) in particolare invita i visitatori a girarvi intorno o entrarvi dentro, permettendo di osservarla da differenti punti di vista e dando l’apparenza di uno spazio in movimento (lo stesso Langdon vi entrerà su invito di Winston).


Un’altra installazione piuttosto curiosa è quella dell’artista cinese Cai Guo-Qiang dal titolo Head on. Quest’opera è stata realizzata nel 2006 per il Guggenheim di Berlino (ignoro il perché si trovi nel romanzo di Brown a Bilbao, forse in prestito in occasione di un’esposizione temporanea sull'artista). Qui vediamo 99 lupi che corrono tutti nella stessa direzione, seguendo probabilmente il capobranco. Questo, però, finisce con lo schiantarsi contro una parete in vetro e gli altri, seguendolo ciecamente, faranno la stessa fine. L’opera è un’allegoria della condizione umana, simboleggiando principalmente la passività degli individui che seguono pensieri e ideologie senza neanche porsi prima delle domande. Seguire passivamente la massa non è un corretto stile di vita, si rischia, infatti, di sbattere contro degli ostacoli imprevisti e non saperli aggirare : questo è ciò che vuole trasmettere l’artista.

Infine, incontriamo di nuovo Louise Bourgeois quando Robert e Ambra devono fuggire dopo l’assassinio di Kirsch. I due, infatti, attraversano una sala in cui sono esposte le opere dell’artista già citata dal titolo Cells. Langdon non ha il tempo di soffermarsi ad analizzarle, ma noi lo faremo. Si tratta di una serie di spazi architettonici (60 in totale e 28 quelli esposti a Bilbao) realizzati nel corso di circa vent'anni e che rappresentano diversi microcosmi: ciascuno di essi ha una sorta di recinto che separa l’interno del microcosmo in questione dall'esterno dell’opera. Ciascuna “stanza” è realizzata con differenti materiali (legno, vetro, marmo) e contiene vari oggetti (specchi, mobili, vestiti). Ogni cella rappresenta, infatti, una paura o un dolore: dolore emotivo o psicologico, paura del buio o di non essere accettati. Chi le osserva dovrà mettere in gioco sé stesso per comprendere e affrontare le paure riprodotte.


Il tour virtuale insieme a Robert termina qui, ma il Guggenheim di Bilbao conserva molte altre opere che vi invito a scoprire online dal sito oppure, perché no, facendo un bel viaggetto e una visita di persona ad uno dei musei di arte moderna e contemporanea più famosi al mondo.